PENSIERI OLTRE - CHI È L'ALTRO
Viviamo un tempo difficile, un tempo in cui difficilmente la bontà, la generosità, il merito, la bravura, la disponibilità sono ingredienti appetibili per costruire qualcosa di più solido, adatto alla maturità di tempi che hanno un assoluto bisogno di mano d’opera qualificata. La rivoluzione telematica, con la sua finissima tecnologia, ha spiazzato molti, soprattutto coloro i quali garantivano la qualità della produzione seguendo un calendario umano ricco di valori passati al setaccio. La prima cosa di cui si parlava, quando per necessità professionali si doveva stilare un giudizio sulla persona, era: “E’ una brava persona!” e l’essere bravo aveva un valore quasi assoluto, perché si legava soprattutto a quella natura primaria, che sapeva unire l’umano nella sua complessa integrità. L’essere bravi era, dunque, una buonissima carta d’identità, quasi un lasciapassare, un via libera verso l’affermazione lavorativa e la persona si sentiva coinvolta al punto che faceva di tutto per fare bella figura, per dimostrare tutte le proprie qualità e così faceva anche la fortuna dell’azienda o della comunità nella quale viveva. L’altro era qualcuno che godeva della nostra considerazione, qualcuno nei confronti del quale posizionavamo la stima, la fiducia, l’orgoglio, oppure anche l’antipatia.
Chi ha insegnato per molti anni sa perfettamente quanto siano importanti le parole di chi ti deve giudicare, di chi ti accompagna, sollecitando di volta in volta la tua curiosità, la tua intelligenza, la tua voglia di apprendere, di metterti a confronto con quel mondo che ti passa accanto e che vuole sapere come la pensi, quali siano i pensieri che si annidano nella tua mente e nel tuo cuore, che tipo di atteggiamento sia più giusto assumere, quale sia il tipo di relazione più adatto. L’altro è un mondo nel mondo, un mondo da scoprire, ma perché la scoperta porti a una conoscenza vera è necessario spogliarsi dei preconcetti e dei pregiudizi, accantonare quelle negatività che ostacolano la conoscenza del cuore e quella dell’anima, aprirsi a una umanità nuova, fatta di profonda fiducia e di corretta attenzione. Riscoprire la forza evocativa dello spirito che alberga nella persona è un po’ come risvegliare quella purezza di pensiero e di costume che accompagna la gioia quotidiana di un bambino che osserva con occhi di stupore il mondo che lo circonda.
Tornare bambini non significa privarsi di una personalità o sottovalutare il coraggio di un carattere formato, bensì rafforzare quel gusto dell’armonia che induce a nuove conquiste, meno materiali, meno scontate, più nuove e interessanti, meno vincolate all’egoismo, più aperte a una libertà vera, non soggetta alle prevaricazioni dell’ambiguità. Non si può amare l’altro se non s’impara a conoscere se stessi, se non si attiva quel meccanismo empatico di cui il grande Socrate è stato maestro e sagace divulgatore, non si può amare l’altro se non si abbandona un modo di vivere e di giudicare che resta ancorato a sommari giudizi di ordine prevalentemente estetico, evocati per rafforzate varie forme di opportunismo a danno del prossimo. Oggi, la politica non aiuta in questo, non educa alla valorizzazione, alla motivazione, all’unione, alla collaborazione, alla comprensione umana, morale e sociale di chi ci sta di fronte; fa di tutto per stuzzicare i pensieri e le azioni peggiori, assumendosi forti responsabilità, soprattutto nei confronti dei giovani.
Mai come in questo momento l’altro è prossimo, è fratello, è nostro simile, è colui che cammina con noi guardandoci in faccia, per capire quale sia la strada giusta, per rendersi conto se esista davvero una pagina di Vangelo che possa modificare l’indurimento delle persone. Mai come in questo momento c’è un estremo bisogno dell’altro, per questo l’educazione diventa il perno attorno al quale si configura il mondo nuovo che avanza, un mondo che non vuole essere compatito o asservito, ma orientato e accompagnato verso l’assunzione di nuovi e fondamentali valori umani. È, forse, necessario capire, analizzare, sollecitare, fare in modo che la storia si colori di impegno e di collaborazione, che tralasci i danni incalcolabili di una presunzione di fondo, è necessario che l’uomo trovi il suo posto a tavola, si sieda e cominci a costruire insieme agli altri la nuova storia, quella che con mille difficoltà nasce dalla convinzione che siamo tutti nella stessa barca e che abbiamo un grande bisogno l’uno dell’altro.
La politica ha ancora molto da apprendere, ma deve affrancarsi dagli stereotipi, dall’idea che ad arrivare siano sempre i più colti, i più belli, i più ricchi o i più acculturati e soprattutto i più furbi. Sembrerà assurdo, ma l’idea politica tradizionale, legata alle illuminazioni ideologiche individuali e alle evoluzioni storiche, è troppo statica di fronte alle domande di una storia che muta rapidamente e che richiede risposte concrete, risposte che affondano la loro forza nel bisogno degli esseri umani di sentirsi parte attiva di un complesso costituzionale in cui ciascuno possa riconoscersi.
LA TOLLERANZA? UNA FREGATURA?
Bisogna essere tolleranti, ma solo quando necessario: non sempre, infatti, la tolleranza viene capita. Può capitare, infatti, che qualcuno la confonda con una sorta di anarchia pregressa, in base alla quale si ritenga libero di fare tutto quello che vuole, in barba all’educazione, al buon senso, alla ragionevolezza, all’autorità e alle leggi. La tolleranza è importante quando è anche riconoscente, quando sa valutare la causa e l’effetto di un’azione o di un frase, quando, insomma, non resta lettera morta, ma genera comprensione, assimilazione, capacità di riconoscere la validità di un comportamento, di un diritto o di un dovere.
Nella tolleranza confluiscono diversi meccanismi, psicologici, sociologici, umani, esperienziali; è una somma coerente di elementi che forniscono un quadro complessivo della capacità di capire e di comprendere dell’essere umano. Come spesso succede, le esagerazioni non sono mai convincenti: lasciano sempre ampi margini di spazio a interpretazioni dubbie e molto ambigue; alla base di un comportamento, c’è sempre una seppur brevissima riflessione, un moto spontaneo della natura che s’interroga per capire meglio se quello che sta facendo sia congeniale alle attese e alle aspirazioni dell’essere umano. La tolleranza fa bene, ma se è coscientemente accolta, se chi la riceve ne capisce l’importanza e il significato.
Oggi si narra di meno, ci si accontenta di forme contratte, di approssimazioni. Si è perso il buon gusto del racconto: nella maggior parte dei casi, ci si limita a quattro parole occasionali, messe lì per vedere se l’interlocutore sia sufficientemente pronto a recepirle. Per questo, non si dà seguito alla necessità di spiegare, di insegnare, di confrontarsi, di approfondire il senso di un atteggiamento, di una parola, di un modo di essere, la fretta è la peggior nemica della comprensione, il consumismo evita volutamente itinerari riflessivi, teme che risvegliare l’attenzione possa suscitare varie forme di reazione o di eccesso di approfondimento. Viviamo in una società che riflette poco e male, che si lascia condurre da varie forme di fatalismo e di superficialità, imponendo una drastica riduzione del tempo, impedendo alla persona di prendere coscienza di chi è e di cosa stia facendo. Spesso, la tolleranza viene scambiata per indecisione, per mancanza di maturità, per approssimazione caratteriale, incapace, quindi, di dare un senso compiuto all’attività della mente e a quella del cuore. Dunque, la tolleranza è un dono prezioso, che va centellinato, servito al momento giusto, quando la situazione è matura e pronta ad accoglierla.
Può capitare, però, che il bene richieda una non dose di tolleranza e che occorra, quindi, adottare un sistema meno morbido e più realista. Famoso, in questo senso, è stato il sindaco di New York Rudolph Giuliani, quando, per risolvere una volta per tutte il problema della delinquenza, applicò la “tolleranza zero”, un sistema d’intervento molto duro contro la malavita newyorchese; un sistema che ha dato ottimi risultati. Tra principio e applicazione, c’è sempre una valutazione, la definizione di una politica che aiuti a inquadrare meglio i risultati che si vogliono ottenere. Nulla di quello che viene deciso e fatto può esserlo senza prima essere passato al vaglio di una valutazione effettiva dei pro e dei contro. In molti casi, la tolleranza viene catalogata come assenza di carattere, come una eccessiva forma di bontà che non porta a nulla di buono, se non un peggioramento della situazione in atto. Il principio è valido di per sé, ma va applicato e l’applicazione richiede una contestualizzazione, deve dimostrare che quel tipo di tolleranza può fare del bene, può veramente essere o diventare il volano di una società che vuole cambiare in meglio.
Certo è che la tolleranza va distribuita a giuste dosi, senza mai esagerare, contemperando la bontà con la fermezza, la libertà con l’assunzione di coscienza morale. Nulla infatti può essere fatto in eccesso, ogni decisione per quanto liberale possa essere, deve sempre collimare con una ragione solidale, che dimostri quanto giusto e buona possa essere la forza di un pensiero o di un’azione.
GRAZIE, PREGO, SCUSI
In questi ultimi anni, l’educazione si è sfaldata: nelle famiglie è arrivato il vento di una libertà che si è portata via il sistema sacramentale del matrimonio, aprendo la via a un’infinita serie di opzioni. Tra le più comuni, figurano il tradimento, l’abbandono, la separazione, il divorzio, la spasmodica ricerca di nuove passioni, una marea scura che ha sciolto quei legami affettivi che avevano fissato le regole di una unione definita sacra dal mondo cattolico. Regole chiare, coraggiose, forti, inossidabili, regole dettate non solo dalla necessità di un raziocinio umano, ma anche da una visione sacrale del matrimonio, concepito come specchio e visione di una fedeltà che doveva confermarsi nella proiezione umana e trascendente. Caduta in disgrazia la disciplina ecclesiastica con le sue componenti educative, il mondo sensibile si è improvvisamente trovato nella certezza di poter consumare senza inibizioni. È come se l’umanità si fosse svegliata da un lungo sonno coercitivo, con l’intenzione di aprirsi a ogni forma di flusso esperienziale, abbandonando per strada le vecchie forme di prudenza, si è così innescato uno strano meccanismo privato, in base al quale ogni iniziativa pensata potesse avere una sua verità esplicativa. Famiglia, scuola, cultura, società, tutto approdava a un senso nuovo, nella maggior parte dei casi frutto di una intenzionalità umana affrancata dalle inibizioni del mondo tradizionale, quello che si era imposto sull’onda di una disciplina di campo piuttosto severa e impositiva. Nell’educazione tradizionale, le parole d’ordine erano comando e obbedienza. Fuori da questo ordine c’era la punizione, ovvero una risposta, la più decisa possibile a ogni forma di presunzione o di intemperanza.
Qualcuno parla di un mondo vecchio, troppo stereotipato, un mondo che non sapeva dare risposte convincenti a una crescita accelerata dei valori umani, spesso coinvolti in recessioni e stravolgimenti di vario ordine e natura. Era il mondo del grazie, del prego, dello scusi, del per favore, non lo farò più, un mondo che si poneva delle domande, che era umanamente costretto a riflettere, per cercare di capire se quello che faceva era giusto o sbagliato, un mondo con regole molto chiare, alle quali bisognava attenersi. La società era umanamente coesa, anche se la coesione non era sempre frutto di una maturazione solidale, quanto piuttosto di forme di pressioni che sfioravano spesso il parossismo e che costringevano le persone a non uscire dal terreno della normalità. Essere coesi significava aver ben chiare le linee di condotta, sapersi attenere all’architettura di un sistema che aveva nella democrazia e nella costituzione i suoi punti cardine, i suoi binari sicuri.
Oggi, quei binari sono diventati fragili, non assicurano e non confermano la sicurezza della viabilità. Tutto avviene sull’onda di emozioni, di antagonismi, di piccoli e grandi conflitti, posti in essere da gente senza scrupoli, sempre pronta a sfruttare ogni momento di crisi. Invece di unire, rassicurare, armonizzare, si coltiva l’arte terribile della destabilizzazione, un’arte che assume contorni sempre più violenti, che non risparmia nessuno, che getta fango a destra e a sinistra, dimenticandosi che al centro ci sono uomini, donne e giovani che osservano e che attendono un segnale positivo per potersi inserire.
Forse, non è più tempo di slogan, di frasi fatte, di prese di posizione eccessive, di insulti e di false promesse; forse, è arrivato il tempo della moderazione, della considerazione, della riflessione, della ricerca e della disponibilità comune a risolvere i problemi della gente, quella gente che con intelligenza e apprensione cerca un appiglio sicuro alla sua storia umana. Chi si occupa di politica oggi deve rendersi conto che la storia, ogni storia, anche la più piccola, ha bisogno di identità e di dignità, ha bisogno di sentire e capire che dietro le parole, le frasi, le battute e il sarcasmo c’è gente che ogni mattina guarda verso l’orizzonte, sperando in una parola di conforto, di sapere che potrà continuare ad avere fiducia e a credere in chi pretende di rendersi arbitro della cosa pubblica.
Forse, non bastano più i confronti troppo accesi, le presunzioni, le prese di posizione esagerate, la gente pretende chiarezza, concretezza, giustizia, legalità, sicurezza, pretende di poter essere stimata e aiutata, apprezzata e valorizzata, non vuole che il mondo guardi al nostro paese come a un pianeta irrisolto, dove la solitudine e l’isolamento la fanno da padroni, lasciando nel cuore e nella mente delle persone la convinzione che non ci sia più spazio per le cose buone, le cose belle, quelle che danno un senso e un valore profondo al paese. C’è un grande bisogno di unione, di consapevolezza, di trovare una direzione di marcia comune, di dimostrare a quel mondo che ci osserva con sospetto che non siamo disfattisti e neppure presuntuosi, ma persone che sanno capire il disagio e la sua provenienza, capaci anche di lavorare per il bene comune sia che questo bene comune si chiami Italia oppure Europa, al di sopra di ogni sospetto e con la volontà di fare bene, di essere parte attiva di un grande percorso economico, umano, morale civile, religioso.
Siamo altresì capaci di essere geniali e creativi al massimo livello, pronti a cercare soluzioni ragionevoli e condivise per tutti quei piccoli e grandi problemi che riguardano la nostra vita comune. È l’Italia che genera e condivide, che parla e si confronta, che riconosce ciò che è giusto e buono, che è sempre pronta a mettere mano alla propria innata generosità, per dimostrare la propria umanità, che non nutre invidie e ambiguità, che di prodiga insieme al prossimo per creare forme di vita più vere, civili, convincenti. È l’Italia del grazie, prego, scusi, che sa mettersi anche in punta di piedi e in silenzio, per capire meglio le chiamate della storia e questo è molto importante, per una unione che cerca caratterizzazioni sempre più valide per affermarsi nella storia del mondo.
RIFLESSIONE SUI RUMORI
Vivere senza l’assillo di rumori perforanti è ancora possibile?
Non è facile uscire dall’aggressiva circolarità dei rumori, non è assolutamente facile negarne l’esistenza o far finta che si possano annullare. La nostra è una società fondata sul rumore. Ci siamo abituati al punto che non ne possiamo più fare a meno. I rumori fanno ormai parte della nostra vita quotidiana, lo sono in una misura spesso eccessiva, ossessiva, lesiva e prevaricante. Il problema è che si sono impossessati a tal punto della nostra vita che siamo costretti a riconoscerli e a condividerli, a proteggerci e a combatterli, nella maggior parte dei casi senza successo, perché sono parte integrante di varie forme di consumismo esasperato e di rivoluzioni industriali che si susseguono senza aver preso nella dovuta considerazione gli effetti di ciò che producono. In moltissimi casi, un presunto progresso cela negatività che hanno pochissimo di umano, non rientrano in quelle regole che dovrebbero armonizzare la cultura sociale della gente.
Ci sono persone che sono naturalmente portate al rumore e vivono questa loro predisposizione con animosità, come se non ne potessero fare a meno. Il problema è che vivono questa loro condizione senza pensare che la loro libertà non collima con quella degli altri anzi, la distrugge, demolendo quell’aura di democrazia che dovrebbe essere base ottimale della vita comunitaria. Nella sua disperata corsa al progresso, l’uomo ha spesso sottovalutato il prezzo da pagare, si è lasciato condurre dall’idea che bastasse appellarsi all’innovazione per risolvere tutti i problemi, dimenticandosi che la salute delle persone vale più di tutte le innovazioni di questo mondo. Il progresso continua a mietere le sue vittime, da una parte dà e dall’altra toglie, da una parte crea e dall’altra distrugge, da una parte illude e dall’altra disillude, troppe persone vivono la libertà e la democrazia come consumazione quotidiana di profitti e interessi personali che nulla hanno a che vedere con una corretta e onesta distribuzione e assunzione di comuni responsabilità.
Viviamo in una società che non ama essere giudicata, che fugge ogni forma di riflessione, che non ne vuole sapere di essere ripresa, osservata, redarguita, richiamata, fatica a essere se stessa fino in fondo, allontanando tutto ciò che odora di specularità educativa. Tutto, seconda una moderna pedagogia corrente, ha una sua logica, un suo modo di essere, una sua identità, tutto è opinabile, soggiogabile, modificabile, adattabile, non c’è più nulla o quasi che possa essere catalogato come assolutamente necessario. La necessità è uno stato transitorio. Il problema è che i rumori distruggono le persone, non solo quelle sofferenti, che hanno bisogno di silenzio, ma anche quelle che, lavorando, avrebbero bisogno della comprensione umana per esercitare in modo esaustivo il loro impegno personale. La democrazia non è un simbolico esercizio di indicatori, ma una sostanziale operazione di collegamento umano, dove le energie diventano sinergiche e si collegano in un delicatissimo esercizio di aggregazione e di compensazione. Il rumore, nella maggior parte dei casi è violazione del diritto personale e di quello collettivo, è una palese esecuzione, in cui i cittadini passano da uno stato di benessere a uno di malessere profondo, provocato da chi, per volontà o ignoranza, distrugge sistematicamente la bellezza e l’armonia dello stare insieme.
Vivere nel rumore è non vivere, è diventare schiavi di un’illegalità diffusa, che si arroga il diritto di fare il bello e il cattivo tempo. Insegnare il silenzio, come facevano i maestri e le maestre di una volta, è altamente qualificante della persona umana, è riconoscere quell’aspirazione al benessere che è condizione importante per una società che vuole realmente migliorare. Coltivare il silenzio significa incontrare il tempo e il modo per una riqualificazione reale della nostra condizione umana.
Felice Magnani