SERVIRE O COMANDARE?
di felice magnani
Nella tradizionale cultura popolare ha quasi sempre prevalso l’idea che si dovesse usare la cultura per comandare. Quando una mamma presentava agli ospiti i propri figli, cominciava quasi sempre dal livello che questi avevano raggiunto, si trattava di una forma di riconoscimento autoreferenziale, ma anche di un modo per evidenziare la maturità e l’intelligenza raggiunta. “Che mestiere fa, tuo figlio?”. “Mio figlio è un dirigente, è a capo di, ha fatto carriera”. Espressioni e parole gettate sul campo per rimuovere varie forme di subalternità accumulate nel corso degli anni, un modo per rivendicare un ruolo e un’autorità, una rivincita sulle povertà della vita, su varie forme di subalternità e sottomissione e forse, in qualche caso, anche la gioia di veder realizzati dei sogni. Nella cultura familiare e in quella sociale di una volta non era quasi ammesso essere “normali”, la normalità era vista come una schiavitù, una condizione da cui emergere per conquistare un ruolo, un primato, una considerazione. Il comando ha sempre affascinato più del servizio, essere al servizio ha sempre generato forme di dipendenza e in molti casi quella condizione servile tipica delle civiltà del passato, quando il servo era colui che era destinato a vivere in perenne sottomissione all’autorità del padrone. Eppure nel servire c’era e c’è ancora oggi l’anima vera della condizione umana, quella che si fa altro da sé per generare entusiasmo, gioia, felicità, quella che si affranca dalle convenzioni di esasperate individualità per ritemprarsi nel sistema delle relazioni sociali, dove il sapere e la conoscenza hanno un fondamentale compito maieutico, quello di elevare l’attenzione altrui verso le cose che contano, quelle che danno un senso concreto al vivere umano. Nella nostra tradizione culturale il servizio riveste un ruolo molto importante, è il frutto di una civiltà, quella cristiana, che ha insegnato come la regalità della vita fosse nel servizio stesso, nella donazione di sé agli altri. Cristo, il Dio diventato uomo, ha sgretolato quel radicalismo politico che voleva una società divisa in caste e dove la povertà diventava una condanna dalla quale era impossibile affrancarsi. Grazie all’esempio del cristianesimo gli uomini hanno imparato che la forza e la bellezza di un pensiero o di una azione stanno nella convinzione che si possa fare del bene agli altri, senza prevaricarli. Anche il comando diventa quindi socialmente utile quando insegna con l’esempio quale sia la strada giusta da percorrere per raggiungere fini nobili e di larga utilità morale e sociale. Se chi comanda lo fa animato da uno spirito altruistico e dalla volontà di aiutare allora compie un atto estremamente positivo, che può cambiare in meglio la vita delle persone. Il problema nasce quando chi comanda non è all’altezza, quando non possiede le virtù necessarie per esercitare la sua autorità, quando è succube di un’esagerata forma di individualismo e di narcisismo, quando non è assolutamente in grado distribuire con coscienza di causa la legalità e la giustizia, quando pensa più a se stesso che agli altri, quando diventa schiavo del potere e non riesce più a distinguere il bene dal male. Comandare o servire? In entrambi i casi si rende necessaria un buon esercizio introspettivo, la capacità di entrare in punta di piedi nella propria e nell’altrui interiorità per capire che cosa sia più giusto fare per puntare direttamente al bene. In molti casi oggi si tende a far prevalere l’interesse privato, la coltivazione del proprio orticello, si spende molto poco tempo per entrare in relazione con il prossimo per conoscerlo meglio, per approfondire che cosa sia più giusto fare per sostenere chi ha bisogno, chi non è in grado da solo di affrontare i muri della vita. La nostra società soffre di solitudini profonde, di silenzi privi di speranza, in molti casi comanda sottovalutando la dimensione umana delle persone, trattandole come oggetti. Il servizio è spesso subordinato alla conquista di identità e tornaconti, non esprime ciò che è realmente nella sua natura, non crea interazione e interlocuzione, lascia spesso i suoi alfieri nel dubbio e nella disaffezione, non è sufficientemente capace di emanciparsi dai giochi del potere, di cui spesso diventa schiavo. Dunque risulta sempre più difficile essere realmente se stessi, vestire i panni che madre natura ci ha riservato con la leggerezza e l’educazione che meritano. In casi come questi l’unica cultura capace di armonizzare e riequilibrare è quella cristiana, nello spirito evangelico infatti si racchiude un modo equo di vivere la vita, trovando dentro se stessi la forza di non dimenticare mai il valore della gioia e della bellezza. In un mondo dove tutto o quasi diventa spettacolo, vale forse la pena ritrovare un porto sicuro dove approdare ogniqualvolta il potere perde di vista la sua utilità pratica, il suo essere risposta intelligente alle attese dei cittadini.